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Perché l’elefante di Catania si chiama Liotru?
Resta ancora da capire perché l’elefante di Catania si chiama Liotru. Anche questo aspetto è legato ad una leggenda. Esso sarebbe infatti la storpiatura del nome Eliodoro, una figura realmente esistita a Catania nella seconda metà dell”VIII secolo.
Eliodoro era un uomo molto colto che ambiva a divenire Vescovo della diocesi di Catania. Nel 765 fu però scelto per ricoprire questa carica Leone II, detto Il Taumaturgo. Per la delusione, Eliodoro abiurò la fede cristiana e si dedicò piuttosto alla stregoneria. Da allora, la sua principale occupazione fu quella di distrarre il popolo dalle funzioni sacre, servendosi dei suoi poteri sovrannaturali.

Circolano diversi aneddoti sui numeri di magia di Eliodoro: pare ad esempio che egli avesse l’abitudine di fare acquisti pagando per mezzo di pietre preziose. Esse si trasformavano però in semplici sassi non appena il malefico mago si allontanava, per la disperazione dei commercianti.

Un giorno Eliodoro convinse un giovane (il nipote del vescovo, sembra) a puntare tutto sulla vittoria di un cavallo, durante una corsa. Effettivamente, il cavallo tagliò per primo il traguardo ma, immediatamente dopo, si trasformò in un demone, cosicché il giovane non poté incassare la vincita.

Secondo la leggenda, fu proprio Eliodoro a forgiare la statua dell’elefante con le proprie mani. Egli aveva anche il potere di animarla e cavalcarla durante le sue scorribande in città. In groppa al suo elefante, Eliodoro compiva tragitti lunghissimi, spostandosi fra Catania e Costantinopoli. Per questo la statua dell’elefante fu chiamata “u cavaddu i Liotru” (“il cavallo di Eliodoro“).

Aci e Galatea
Secondo la mitologia Acireale prende il nome dal pastorello Aci, figlio del dio Pan, protettore dei monti e dei boschi.
La leggenda narra del grande amore che univa Aci a Galatea, bellissima ninfa del mare dalla pelle color del latte molto cara agli dei. Ma  l’amore tra i due giovani  accese la gelosia del mostruoso gigante Polifemo con un occhio solo in fronte, il quale dopo il rifiuto di Galatea scagliò sul corpo di Aci un gigantesco masso che lo schiacciò.
“Appena la notizia giunse a Galatea questa accorse dove era il corpo di Aci. Alla vista del suo amore gli si gettò addosso piangendo tutte le lacrime che aveva in corpo.
Il pianto senza fine di Galatea destò la compassione degli dei che vollero attenuare il suo tormento trasformando Aci in un bellissimo fiume che scende dall’Etna e sfocia nel tratto di spiaggia dove solevano incontrarsi i due amanti”.
Dal sangue del pastore nacque dunque un fiume chiamato Akis dai greci, oggi  in buona parte sottoterraneo,  ma che riaffiora come sorgente nei pressi di Santa Maria la Scala (Borgo marinaro, frazione di Acireale) sfociando in una sorgente chiamata “u sangu di Jaci” (il sangue di Aci).

L'Etna
Secondo alcuni l’identificazione della ninfa Etna con il Vulcano spiegherebbe il motivo per cui i catanesi considerano la “Montagna” come un’entità femminile buona e materna.
Poco importa se il dizionario italiano lo identifica come sostantivo maschile o se in tutto il mondo è conosciuto anche come “Mongibello”. Per ogni catanese il suo Vulcano è sempre e comunque “femmina” e non è insolito sentirne parlare come di una “lei”. L’Etna, infatti, è certamente il vulcano attivo più alto d’Europa, patrimonio Unesco e luogo di altissimo interesse naturalistico, ma per coloro che abitano alle sue pendici essa è, semplicemente e prima di tutto, la “Montagna”. Alcuni sospettano che quest’accezione femminile del Vulcano sia riconducibile alla leggenda della ninfa Etna, un personaggio della mitologia dal grande fascino.

Sono numerosissime le leggende che hanno per protagonista l’Etna o che sono ambientate in questo luogo per certi versi magico e mistico. Tra queste, una riguarda un personaggio della mitologia, figlia di Urano e di Gea, vale a dire la ninfa Etna, da cui deriverebbe il nome del Vulcano. Erede delle due divinità, simbolo rispettivamente del Cielo e della Terra, la Montagna rappresenterebbe, quindi, la fusione e il punto di raccordo tra il centro magmatico terrestre e l’azzurro celeste.

La ninfa Etna e i gemelli nati dal ventre della Montagna
Sono numerose le versioni della leggenda che vedono per protagonista la ninfa Etna. Tra queste, per esempio, si racconta che la ninfa fosse l’amante del dio del fuoco Efesto, conosciuto in Sicilia come Adranos. Si narra che grazie a quest’unione vennero alla vita gli dèi Palici, protettori della navigazione e personificazione delle sorgenti termali solforose.

Come riportato su Instoria.it, questi mitologici personaggi sarebbero nati due volte. Leggenda vuole, infatti, che la ninfa Etna si fosse nascosta sotto il Vulcano per ultimare la gravidanza e che, quindi, i due gemelli avrebbero visto la luce ben due volte: dapprima vendendo fuori dal ventre paterno e, in seguito, da quello della terra.

La ninfa Etna e il ruolo decisivo nella lotta tra Tifeo e Zeus
La versione più popolare del mito, tuttavia, è quella che racconta il ruolo decisivo della ninfa Etna nello scontro fatale tra il gigante Tifeo e Zeus. I Giganti, in effetti, figli di Gea e fratelli dei Titani, da sempre ritenevano il potere di Zeus illegittimo e decisero, quindi, di provare a usurpare il suo trono. Ebbe così inizio una terribile e sanguinosa guerra tra il padre degli dèi e Tifeo, un gigante metà uomo metà animale, con la testa d’asino, ali di pipistrello, due draghi sputa fuoco al posto delle gambe e cento serpenti sulle spalle.

Nel momento in cui la lotta sembrava per volgere in favore del temibile gigante, però, la vicenda si sposta nel campo di battaglia finale e, cioè, il luogo in cui sarebbe poi sorto il maestoso Vulcano. Qui, con Zeus gravemente ferito, a Tifeo non restava altro che sferrare il colpo di grazia. Fu in quel momento, però, che intervenne Etna a sottomettere il gigante, coprendolo interamente con il proprio corpo e facendo ricorso a tutta la sua incredibile forza e coraggio femminile. Ancora oggi Tifeo cercherebbe di liberarsi dalla sua prigionia nel ventre della terra, sbuffando violente e potenti fiammate. È in tal modo che il fuoco di Tifeo e il corpo di Etna danno vita a una terra feconda e ricca di frutti.
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La ninfa Etna: entità femminile di vita e di morte

Da queste due differenti versioni del mito viene fuori, quindi, la figura di un’entità femminile forte, coraggiosa e che non si piega alla prepotenza maschile. Se da una parte la ninfa Etna è madre e, dunque, presenza vivifica e benevola, nella seconda leggenda essa si presenta forte e implacabile di fronte al nemico, capace di dare la vita ma anche la morte. In un continuo ed eterno contrasto, Etna rappresenta così il raccordo tra cielo e terra, tra vita e morte e per questo, nelle sue contraddizioni, non può che essere donna, guerriera e protettrice dei suoi figli.

L'Isola dei Ciclopi
Secondo il mito, i Faraglioni di Aci Trezza vennero buttati in mare da Polifemo perché Ulisse l’aveva accecato.

Aci Trezza è un pittoresco borgo di pescatori, frazione di Aci Castello, in provincia di Catania. Qui Giovanni Verga ambientò i Malavoglia (Aci Trezza, il paese dei Malavoglia di Verga) e Luchino Visconti girò La Terra trema, ispirato al romanzo.

Il porticciolo si apre davanti a un gruppo di faraglioni basaltici, detti Isole dei Ciclopi, protetti come riserva naturale. Sull’isolotto più grande, conosciuto come Isola Lachea, è impiantata una stazione di studi biologici e di fisica marina.

Ai Faraglioni di Aci Trezza si lega l’episodio di Ulisse e Polifemo narrato nell’Odissea di Omero.

I Faraglioni di Aci Trezza secondo il mito
Ulisse, durante il viaggio di ritorno verso Itaca, approdò all’isola dei Ciclopi. Nella grotta più imponente abitava il ciclope Polifemo, figlio di Poseidone, un gigante mostruoso, barbaro e feroce. Polifemo fece prigionieri Ulisse e i suoi compagni, promettendo di mangiarli tutti.

Per riuscire a salvarsi, l’astuto Ulisse lo fece ubriacare e poi gli accecò l’unico occhio. In preda alla collera, Polifemo iniziò a scagliare grossi macigni contro le navi di Ulisse e dei suoi compagni che stavano fuggendo, dando così origine ai Faraglioni.

La Valle dell'alcantara
Si cela una misteriosa leggenda dietro la nascita delle Gole dell’Alcantara. Si narra infatti che queste ultime siano state scavate dall’ira degli Dei, interpretando in tal modo le antiche eruzioni di vulcani spenti da millenni ma legati per sempre a questo splendido angolo della Sicilia.
Secondo una leggenda siciliana, la valle del fiume Alcantara, nell’entroterra di Taormina, sarebbe il frutto di un’ eruzione vulcanica scatenata dalle ire degli Dei, nella notte dei tempi, per punire la malvagità di un contadino disonesto . È solo una leggenda ovviamente ma si avvicina alla verità in quanto ricorda l’esistenza di un antichissimo vulcano fra l’Etna e i monti Peloritani: il piccolo cono del monte Mojo dal quale scaturì veramente un’eruzione nel terzo millennio avanti Cristo; immense masse di lava si riversarono verso il mare proprio lungo la valle dell’Alcantara. Sarebbe il racconto di un’eruzione come tante, se all’epoca di questo remoto cataclisma la concomitanza di un terremoto non fosse intervenuta a modellare la pietra ancora incandescente, producendo una profonda fessura nel terreno appena trasformato.
Le acque del fiume si impadronirono presto dello strettissimo Canyon ed è probabilmente questa l’origine delle attuali Gole dell’Alcantara, uno dei più spettacolari scenari naturali di Sicilia

Il Castagno dei cento cavalli
Un albero da Guinness dei primati
La cittadina di Sant’Alfio ha una storia molto antica come la fama dei suoi vigneti tanto da divenire, già nel ‘800, tra i più importanti comuni etnei nella produzione ed esportazione di ottimo vino. Ancora oggi, Sant’Alfio è conosciuto per i suoi vini ma non solo. Poco distante dal centro abitato si erge un’opera della natura a dir poco eccezionale. Trattasi del millenario albero di castagno denominato Castagno dei Cento Cavalli.
Misurante 22 metri di altezza per 22 metri di circonferenza del tronco, databile a più di 2000 anni, oggi esso si presenta composto da tre grandi fusti (precisamente di 13, 20 e 21 metri) ed è considerato come il castagno più grande d’Italia nonché l’albero più antico e più grande d’Europa.

Negli ultimi anni, il grande albero ha trovato anche un posto nel libro dei Guinness dei primati come l’albero più grande del mondo (tenendo conto della rilevazione del 1780 da cui si evince una misura di 57,9 m di circonferenza con tutti i rami).

La Leggenda e il riconoscimento dell’UNESCO
Il nostro albero deve il suo soprannome ad una leggenda secondo la quale, durante una battuta di caccia, in una notte burrascosa, sotto la sua immensa chioma, trovarono riparo la regina Giovanna d’Aragona, per alcuni, o Giovanna d’Angiò, per altri, e tutto il suo seguito composto da cento cavalieri a cavallo.

Ovviamente si tratta solo di fantasia popolare anche perché, fonti storiche accertano, la regina Giovanna d’Angiò non venne mai in Sicilia. In ogni caso, vera o non vera, la maestosità dell’albero è una realtà che nel 2008 è stata riconosciuta anche dall’UNESCO che l’ha nominato “Monumento Messaggero di pace”.


Il cavallo senza testa

La Catania del '700 ci presenta una leggenda davvero affascinante, quella del cavallo senza testa.

Questa leggenda è ambientata nella bellissima Via Crociferi; in questa via i numerosi nobili che vi abitavano nel '700, e che vi tenevano i loro notturni conciliaboli o per intrighi amorosi o per cospirazioni private, e quindi non volevano essere notati, e tanto meno riconosciuti, fecero spargere la voce che di notte vagasse un cavallo senza testa, e perciò nessuno vi si avventurava una volta calate le tenebre. Soltanto un coraggioso giovane scommise con i suoi amici che ci sarebbe andato nel cuore della notte, e come prova di questo, avrebbe piantato un grosso chiodo sotto l’Arco delle monache Benedettine, che la tradizione vuole costruito in una sola notte nel 1704. Gli amici accettarono la scommessa, e l’ardimentoso giovane, munito di scala, del grosso chiodo e del martello, si recò a mezzanotte sotto l’arco delle monache, e vi piantò il chiodo (ancora se ne vede il buco), ma, nell’eccitazione non si accorse di avere attaccato anche un lembo del suo mantello al muro, sicché quando volle scendere dalla scala, si sentì afferrato a una mano invisibile, il giovane credette allora di essere stato afferrato dal cavallo senza testa, e ci rimase secco.

Aveva vinto la scommessa ma la leggenda del cavallo ebbe una clamorosa conferma, e nessuno si azzardò più di passare di notte per Via Crociferi.

Scilla e Cariddi

Un altro esempio del costume di personificare le forze della natura in personaggi ideali, furono le figure di Scilla e Cariddi. Scilla, dal lato calabro, e Cariddi dal lato siculo, furono rappresentati dal mito greco come due mostri che terrorizzavano i naviganti al loro passaggio. Scilla (colei che dilania), e Cariddi (colei che risucchia), rappresentavano per i greci le forze distruttrici del mare. Un tempo Scilla era conosciuta come una bellissima donna, figlia di Ecate, la quale fu poi trasformata in un orrendo mostro di forma canina, dalle sei orrende teste e dalle dodici zampe. Cariddi, figlia di Poseidone e della Madre Terra, era considerata come una donna vorace, che Giove scagliò sulla terra insieme ad un fulmine: ella era usa bere enormi quantità di acqua che poi ributtava in mare.Queste due divinità, pur essendo state localizzate tra le due rive dello stretto di Messina, dove le coste sono più vicine, furono intese in senso lato a rappresentare i pericoli del mare dove questo è ristretto dalla presenza delle terre. Un altro fenomeno notato dagli antichi era quello che, fu chiamato "Fata Morgana" (costei, sorella di re Artu’ ed allieva del Mago Merlino, fu un personaggio dei romanzi cavallereschi). L’evaporizzazione provocata dal surriscaldamento dell’acqua del mare, nelle calde giornate d’estate, (particolarmente quando l’acqua dello stretto appare calma) produce foschie, facili a creare immagini di ombre vaganti. Furono proprio queste foschie che facevano "vedere" ai Greci, dalla costa calabra, schiere di uomini erranti sulla costa sicula,a far nascere il mito della Fata Morgana.

L’Amenano: il fiume sotterraneo di Catania
Non tutti sanno che nel sottosuolo di Catania, a pochi metri di profondità, scorre un fiume chiamato Amenano, dal nome della divinità greca per metà uomo e per metà toro. Per un lungo periodo, il fiume fu in verità chiamato “Judicello”, poiché attraversava la zona ebraica della città: la Giudecca, appunto.

La cosa più curiosa è però che, fino a pochi secoli fa, l’Amenano scorreva “normalmente” in superficie, attraversando il centro storico di Catania ed alimentando anche il piccolo Lago di Nicito, situato ai margini della città.

La terribile colata lavica del 1669, che raggiunse e distrusse la parte meridionale di Catania, ha però sepolto sia il lago Nicito che il fiume Amenano, che oggi riaffiora soltanto in alcuni punti della città.

Sul lato sud-occidentale di Piazza Duomo, il fiume alimenta la splendida fontana ottocentesca che porta proprio il suo nome. Dietro la Fontana dell’Amenano, il fiume fa nuovamente capolino nella piazzetta presso la quale si tiene il mercato del pesce (la famosa “Piscarìa” di Catania).

Un altro tratto dell’Amenano appare all’interno del piccolo Giardino Pacini, che potrete raggiungere dal Duomo oltrepassando la Porta Uzeda. Un tempo, la foce del fiume era situata proprio in questo punto.

Tuttavia, il luogo più insolito nel quale potrete vedere lo scorrere del fiume è l’Ostello della Gioventù di Catania. No, non intendo “vicino l’ostello” né “di fronte” ad esso, ma proprio al suo interno!

Dal wine bar della struttura (peraltro molto popolare in città), si accede infatti ad una grotta lavica attraversata dalle acque dell’Amenano.

 
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